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Sabino Cassese, grande giurista ed intellettuale di origine atripaldese, rappresenta motivo di legittimo orgoglio non soltanto per l’ Irpinia ma per tutta la comunita’ accademica nazionale.  Cassese,laureatosi giovanissimo alla Scuola Normale Superiore di Pisa,e’ ben presto divenuto uno studioso di assoluto rilievo,professore universitario di diritto amministrativo nelle piu’ prestigiose Universita’ italiane e straniere,autore di una smisurata produzione dottrinaria ed anche divulgativa,editorialista ed opinionista tra i piu’ influenti nell’attuale dibattito pubblico.   Consulente ed osservatore della pubblica amministrazione “ in campo“,ha ricoperto numerosi ed importanti incarichi istituzionali,tra cui quello di Ministro della Funzione Pubblica nel governo Ciampi (1993) e di giudice della Corte Costituzionale per il novennato 2005/2014. Nel suo ultimo,interessante e ponderoso volume,”Varcare le frontiere”, il prof. Cassese ripercorre con acume critico il suo articolato e ricco percorso di esperienze culturali e professionali,sapientemente inquadrato nel contesto della storia recente del nostro Paese ma anche con riferimenti comparatistici ed ampie aperture internazionali e cosmopolite.

 

Nella sua autobiografia intellettuale, emerge un forte legame tra il passato e il presente. Cosa l’ha spinta a intraprendere questo viaggio “su sé stesso” e riannodare i fili della sua carriera e della storia italiana?

“Numerosi motivi. Innanzitutto, illustrare un percorso di vita. In secondo luogo, passare in rassegna, come in una galleria di ritratti, le persone con cui sono stato in contatto, i maestri, gli allievi, gli uomini di governo. In terzo luogo, descrivere lo stato della cultura italiana, non limitatamente alla sola cultura giuridica, ma con riferimento anche a quella delle scienze sociali e delle altre scienze contermini al diritto. Quindi, un bilancio degli studi e delle grandi correnti ideali dell’ultimo settantennio, nonché un giudizio sullo stato attuale dell’Italia e sul suo futuro.”

 Lei racconta delle sue esperienze durante il fascismo. In che modo quei ricordi e quelle esperienze hanno influenzato il suo percorso accademico e intellettuale?

 Fanno, innanzitutto, parte del bagaglio intellettuale, nel senso che mi hanno spinto a studiare il fascismo, partendo dal corporativismo, poi passando alla biografia di Giuseppe Bottai, infine scrivendo il libro intitolato “Lo Stato fascista”, pubblicato dal Mulino.

 Uno degli elementi centrali del libro è l’incontro con i grandi autori del passato. C’è un’opera o un pensatore in particolare che ha segnato la sua visione del diritto e della politica?

 “Gliene posso indicare due. Primo: Alexis de Tocqueville, perché la lettura dei suoi scritti è servita per comprendere l’importanza dell’osservazione diretta per lo studio delle istituzioni. Secondo: Massimo Severo Giannini perché la sua originale visione del diritto amministrativo ha rovesciato quelli che una volta erano i canoni fondamentali nello studio del diritto.”

Durante la sua carriera, ha avuto l’opportunità di lavorare presso diverse istituzioni, dall’ENI di Enrico Mattei alle università italiane e straniere. Quale di queste esperienze considera più formativa e perché?

 “Sono state quasi tutte esperienze molto formative, ma in senso diverso. Quella dell’Eni, perché c’era un gruppo di operatori e di studiosi che, sotto la direzione di Enrico Mattei, lavoravano per un nuovo Risorgimento del nostro Paese. Quelle nelle università francesi per intendere l’ordine e la disciplina nel mondo del diritto. Quelle nelle università del Nord e del Sud America per convincersi dell’approccio problematico e non dogmatico allo studio del diritto. Quelle nelle università inglesi per considerare l’importante ruolo svolto dalla contrapposizione tra Inghilterra e Francia nella formazione di alcuni dei concetti fondamentali del diritto pubblico In Europa.”

 Nel libro si evidenzia il ruolo della politica ai vertici delle istituzioni. Qual è stata la sfida più grande che ha affrontato in questo ambito, e come ha cercato di mantenere un equilibrio tra il ruolo di giurista e quello di osservatore delle dinamiche politiche?

 “Certamente la sfida più grande è stata quella relativa alla riforma della pubblica amministrazione. Questa richiede una profonda conoscenza del funzionamento della macchina amministrativa. Richiede, in secondo luogo, chiari obiettivi, nel senso di riportare il cittadino in primo piano. Infine, richiede la necessità di formare una cultura riformatrice amministrativa e di far convergere su questa le migliori forze del Paese”.

 Lei ha collaborato con riviste e giornali come forma di impegno civile. In che modo questa attività ha arricchito la sua comprensione del dibattito pubblico e del ruolo delle istituzioni?

 “È servita in vario modo: innanzitutto, per svolgere quelle che ho chiamato sempre lezioni in pubblico, nel senso di continuare la mia attività didattica attraverso i media. In secondo luogo, per essere presente nel dibattito pubblico. In terzo luogo, per inserirvi, importandole, le migliori idee delle culture straniere.”

 Il titolo del libro, ‘Varcare le frontiere”, suggerisce un oltrepassamento di limiti, sia fisici che intellettuali. Quali sono, secondo lei, le frontiere più importanti che un giurista e un intellettuale devono superare oggi?

 “I limiti maggiori oggi consistono nel positivismo e nel formalismo. Questi conducono ad una chiusura della scienza giuridica rispetto alla realtà e ai problemi che si pongono quotidianamente. Vi sono giuristi che, nel chiuso delle loro stanza, spaccano il capello in quattro senza riuscire a comprendere la realtà vera dei poteri pubblici e la necessità di modificarli.”

 Nel libro offre un’analisi dell’Italia contemporanea. Come descriverebbe lo stato della Repubblica italiana oggi, soprattutto in relazione alle sfide globali e politiche che sta affrontando

“Non faccio parte dei piagnoni che lamentano sempre gli aspetti negativi del nostro paese. L’Italia è un paese prismatico, ha cioè molte facce. Penso che gli aspetti positivi prevalgano su quelli negativi e questo deve spingerci a correggere le storture e le contraddizioni esistenti, in modo che prevalgano ancora di più gli aspetti positivi.”

 Cosa rappresenta per lei il concetto di “etica del lavoro”, e in che modo questa visione ha guidato le sue scelte professionali e personali nel corso della sua carriera?

 “L’etica del lavoro è innanzitutto un adempimento costituzionale perché l’articolo 4, secondo comma della Costituzione dice espressamente che ogni cittadino ha il dovere di svolgere secondo le proprie possibilità e la propria scelta un’attività o una funzione che concorra al progresso materiale o spirituale della società. Questo articolo della Costituzione contiene un insegnamento fondamentale che andrebbe rispettato da tutti come principio non solo legale ma anche etico.”

 ll suo libro traccia un percorso di fiducia verso il futuro. Quali sono, secondo lei,  i valori più importanti che l’Italia dovrebbe preservare per affrontare le sfide del domani?

 “Il primo è quello di cui abbiamo appena parlato, cioè il dovere di lavorare, che si affianca al diritto al lavoro. Il secondo è il principio del merito che è un valore essenziale perché, se non si riconosce il merito, si finisce per premiare il privilegio. Il terzo è quello di un patriottismo costituzionale che vuol dire coesione con gli ideali condivisi e scritti nella carta fondamentale dell’Italia, la Costituzione.”

 

 

 

 

 

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