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Ci sono bambini che crescono con sogni grandiosi, immaginandosi astronauti, scienziati o esploratori di mondi lontani. Eleonora Sani era una di loro ,anche se non sognava di diventare un’astrofisica o un’astronoma, ma era spinta da un’irrefrenabile curiosità per il funzionamento delle cose. Fin da piccola, era affascinata dalla natura: voleva capire perché le formiche si muovessero in fila o perché da una foglia spezzata uscissero delle goccioline. Allo stesso tempo, era incuriosita dalla meccanica: smontava e osservava con suo nonno i motori delle motociclette per scoprire come funzionassero.

Questa curiosità l’ha guidata nelle scelte accademiche. La affascinavano anche biotecnologie e ingegneria, ma alla fine ha scelto la fisica per il suo linguaggio universale: la matematica. “La matematica supera le barriere culturali, è una lingua universale che descrive la natura e il cosmo“.

Eleonora voleva capire perché le formiche si muovevano tutte insieme, come funzionavano le cose intorno a lei, ma era verso l’infinito sopra la sua testa che il suo sguardo si perdeva più spesso. Quel cielo notturno, puntellato di luci lontane, le parlava di misteri ancora da svelare. E così, da Siena a Firenze, fino al Cile, Eleonora ha seguito quella passione che da sempre le scorreva dentro, diventando un’astrofisica affermata. In questa intervista ci racconta il suo straordinario percorso, fatto di studio, ricerca e voglia di comprendere il cosmo.

Perchè ha scelto l’astrofisica?

L’astrofisica permette di esplorare una vasta gamma di ambiti della fisica: meccanica quantistica, elettromagnetismo, relatività generale e speciale, meccanica celeste. Mi piaceva l’idea di integrare diverse conoscenze per interpretare ciò che osserviamo. Inoltre, il cielo mi ha sempre affascinata e osservare le stelle era un passatempo che alimentava la mia immaginazione.

Ci racconta il suo percorso formativo e professionale. Come è iniziata la sua carriera nel mondo dell’astrofisica?

Sono nata a Siena, ma la mia formazione accademica è avvenuta a Firenze, dove mi sono dottorata in astrofisica. Durante il dottorato e nei primi anni del mio percorso lavorativo, ho vissuto tra Firenze e Monaco di Baviera, lavorando presso l’Istituto Nazionale di Astrofisica (INAF) e il Max Planck Institute. Questo periodo di sei anni è stato fondamentale per costruire la mia carriera, alternando ricerca e approfondimenti tecnici, soprattutto nell’ambito dell’astronomia ottico-infrarossa e sub-millimetrica.

Come descriverebbe il suo lavoro a chi non è familiare con il mondo dell’astrofisica?

Se dovessi fare un paragone, direi che il mio ruolo è simile a quello di un pilota di Formula Uno. Il pilota è l’esperto che indica ai tecnici cosa serve per vincere la gara: quale assetto, quale tipo di gomme, quale motore. Ecco, io faccio lo stesso con i telescopi e la strumentazione. Traduco ciò che serve alla comunità scientifica in specifiche tecniche: Abbiamo bisogno di questo strumento migliorato in questo modo per ottenere determinati risultati scientifici.  Questo mi permette di ottimizzare la tecnologia a disposizione e di garantire che gli strumenti forniscano alla comunità il massimo delle loro capacità.

Oltre a questo ruolo tecnico, si occupa anche di ricerca?

Sì, l’altra parte fondamentale del mio lavoro è la ricerca scientifica, che conduco in autonomia. L’istituto per cui lavoro mi offre la libertà di gestire le mie investigazioni, e il mio campo di studio è il rapporto tra i buchi neri supermassicci e le galassie che li ospitano. Negli ultimi vent’anni è emerso chiaramente che c’è una forte connessione tra i due: i buchi neri influenzano lo sviluppo delle galassie e viceversa.

In che ambito specifico si concentra la sua ricerca?

La mia ricerca si focalizza sulla connessione tra i buchi neri supermassicci e le galassie che li ospitano. Oltre alla parte teorica, ho iniziato a lavorare sugli aspetti più tecnici della strumentazione astronomica. Queste competenze mi hanno portato a collaborare con il Large Binocular Telescope in Arizona, dove ho trascorso molte notti a osservare il cielo e a ottimizzare gli strumenti necessari per rispondere alle esigenze della comunità scientifica.

Dopo questa esperienza, cosa l’ha portata in Sud America?

Dieci anni fa si è presentata l’opportunità di lavorare per l’European Southern Observatory (ESO), un prestigioso osservatorio europeo con sede in Cile, sia a Santiago che nel deserto di Atacama. Insieme a mio marito Claudio, abbiamo valutato pro e contro di un trasferimento così lontano dall’Italia. Nonostante le difficoltà di lasciare le nostre radici, abbiamo deciso di cogliere questa opportunità, inizialmente per un periodo di 3-5 anni. Ora, dopo dieci anni, ci siamo stabiliti qui e pensiamo di continuare ancora per un po’

Qual è stata la sua prima emozione guardando le stelle con un telescopio?

Guardare il cielo cileno, uno dei più limpidi al mondo, è un’esperienza indescrivibile. La prima volta che ho osservato le stelle attraverso un telescopio è stato come entrare in un altro mondo: la sensazione di vastità e connessione con l’universo è travolgente. È un momento che ti cambia, ti fa sentire piccolo ma anche parte di qualcosa di immensamente grande. Studiare l’universo è come sollevare veli sull’infinito. Ogni scoperta non solo ti sorprende, ma apre a nuove domande, nuove sfide.

Come spiegherebbe l’immensità di una galassia a chi non ha familiarità con il cosmo?

Per far capire quanto sia grande una galassia, eviterei di parlare in chilometri o metri: i numeri sarebbero talmente enormi da perdere significato. In astronomia, usiamo la velocità della luce come riferimento. Ad esempio, una galassia può essere larga centinaia di migliaia di anni luce, il che significa che anche viaggiando alla velocità della luce, che è la massima possibile, ci vorrebbero centinaia di migliaia di anni per attraversarla.

La velocità della luce è una costante universale, non varia né nello spazio né nel tempo, ed è incredibilmente veloce: circa 300.000 chilometri al secondo. Questo rende evidente quanto siano immense le distanze cosmiche.

Qual è il ruolo dei buchi neri supermassicci nel centro delle galassie?

Hanno un ruolo chiave. Una galassia è composta da stelle, gas, polveri e dinamiche complesse che la influenzano, sia internamente sia dall’ambiente circostante. Quando il gas che si trova nella galassia raggiunge la regione centrale, viene fagocitato dal buco nero, un processo noto come accrescimento. Questo porta il buco nero a crescere in massa.

Quando l’accrescimento è significativo, cioè quando la quantità di gas assorbita è elevata, il buco nero si “attiva” e converte la materia in energia. Questa energia viene rilasciata sotto forma di luce e calore, con un’efficienza straordinaria: un buco nero è 100.000 volte più efficiente nel convertire materia in energia rispetto a una stella. Anche se questa fase di attività dura un tempo relativamente breve rispetto alla vita di una galassia, è uno degli eventi energetici più potenti dell’universo e si ritiene regoli il tasso di formazione stellare nella galassia ospite.

Qual è il prossimo grande passo per l’astrofisica?

 Il prossimo grande passo è senza dubbio la ricerca di vita extraterrestre. Il sogno sarebbe identificare vita intelligente, ma prima di arrivare a quel punto bisogna lavorare su tappe intermedie. Dobbiamo trovare pianeti con le condizioni favorevoli allo sviluppo della vita e identificare i traccianti di queste condizioni, come il vapor d’acqua, nelle atmosfere degli esopianeti.  Un altro obiettivo è osservare le prime stelle formatesi nell’universo, che al momento sono solo teorizzate: si tratta di stelle composte esclusivamente di idrogeno ed elio, senza altri elementi chimici. Per ora non abbiamo telescopi abbastanza sensibili per individuarle, ma ci stiamo avvicinando. La loro identificazione permetterebbe di confermare modelli di formazione ed evoluzione dell’Universo.

L’intelligenza artificiale ha trasformato il modo di analizzare i dati astronomici?

Non completamente, ma c’è un grande interesse nel suo utilizzo. L’intelligenza artificiale può essere uno strumento prezioso, come una calcolatrice avanzata. È particolarmente utile nell’analisi di database enormi e complessi, permettendo di identificare schemi e correlazioni in tempi molto più rapidi. Tuttavia, rimane uno strumento: la parte interpretativa e fisica resta un compito umano.

Hai già avuto il privilegio di partecipare a una scoperta importante?

Sì, ho avuto la fortuna di essere coinvolto nell’osservazione di una fusione di stelle di neutroni nel 2017. È stata una scoperta eccezionale, perché ha confermato che gli elementi chimici pesanti, come oro e platino, si formano in questi eventi. Questo risultato, che ha richiesto la collaborazione internazionale di molti gruppi di ricerca, ha chiuso un cerchio importante nel nostro modello cosmologico.

Quanto tempo ci vorrebbe per attraversare una galassia e quanto ci aiuta questo a comprenderne la vastità?

Per dare un’idea concreta della grandezza di una galassia, possiamo pensare ai tempi di attraversamento. Per percorrere l’intera galassia servirebbero circa 100.000 anni alla velocità della luce. Questo significa che un essere umano dovrebbe vivere 100.000 anni per attraversarla. In confronto, la luce del Sole impiega solo 8 minuti per raggiungere la Terra.

Un’altra analogia utile è immaginare la galassia come una città immensa, mentre il nostro Sistema Solare sarebbe un piccolo quartiere. La dimensione del Sistema Solare, considerando tutti i suoi elementi periferici, è di circa un anno luce, mentre la galassia si estende per 100.000 anni luce. La nostra “città” galattica è dunque 100.000 volte più grande dell’ambiente in cui si trova la Terra.

Qual è il suo sogno nel cassetto come astrofisico?

Da un lato, mi piacerebbe identificare i progenitori delle prime stelle dell’universo. Dall’altro, sono affascinato dal mistero dei buchi neri supermassicci. Vorrei scoprire perché e come la loro energia influenza l’evoluzione delle galassie che li ospitano. È un fenomeno ben documentato, ma la spiegazione teorica rimane incompleta. Trovare la chiave di volta sarebbe straordinario.

Ha trovato ispirazione nella cultura cilena, magari nelle leggende indigene legate alle stelle?

Sì, assolutamente. Ho sempre amato fare divulgazione e mi sono interessata ai miti astronomici in diverse culture. Ogni popolazione interpreta le stelle in base alla propria mitologia e tradizione. In Cile, ho scoperto la ricca mitologia dei Mapuche, una delle comunità indigene più significative.

Per loro, la madre terra, chiamata Ñuke Mapu, è il centro dell’universo e molte costellazioni riflettono questo legame con la natura. Ad esempio, la Croce del Sud, simbolo iconico dell’emisfero australe, è conosciuta come Chacana nella loro lingua. È affascinante vedere come le stelle abbiano sempre un ruolo centrale nelle storie di ogni cultura.

Cosa direbbe a un giovane che sogna di diventare astrofisico?

Direi di seguire la curiosità e la passione per la scienza, senza arrendersi alle  difficoltà. L’astrofisica è un campo complesso, ma le sfide sono ciò che lo rendono affascinante. La ricerca può prendere strade tortuose e richiede perseveranza. Ogni domanda aperta è un invito a esplorare, e ogni scoperta è un passo verso la comprensione del nostro posto nell’universo.