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Osservare i quadri di Luca Bonfanti significa immergersi in una realtà parallela, di cui si avverte inizialmente solo il richiamo, ma che improvvisamente ti avvolge e ti solleva verso un’energia superiore. Il colore per Bonfanti, infatti, non è solo materia, ma diventa nucleo ancestrale, riflesso di un divino che alberga in ognuno di noi e che si percepisce venendo in contatto con le frequenze emesse dalla tela. Nel suo percorso artistico si sono succeduti diversi linguaggi: dalla fotografia alla musica, passando per la scultura, fino alla pittura che, a sua volta, si è sviluppata attraverso un processo spontaneo e costante di alleggerimento, con la perdita graduale di contenuti formali e simbolici, per raggiungere la purezza della monocromia, seme di una realtà universale a cui tutti tendiamo.

Spirito libero, scevro da manierismi accademici, anche nella vita, l’artista è sempre in ascolto di se stesso e della propria voce interiore, che lo ha condotto, a volte con spietatezza, a “svuotarsi di sé”, per mettersi al servizio di una consapevolezza suprema, di cui lui si definisce antenna e strumento. In questo cammino intimo e poetico, la metafisica scava il proprio solco, inizialmente solo tratteggiato, e successivamente sempre più profondo e definito; il colore diventa assoluto e permea la tela, colpendo gli occhi di chi osserva e creando sinapsi spontanee che raggiungono l’anima individuale, per elevarla fino a quella universale, in un atto di mutuo e intimo riconoscimento. In questo viaggio verso l’essenza (titolo dell’ultima mostra personale dell’artista), il colore si trasforma in una frequenza potente, diversa per ciascun osservatore a dimostrazione dell’unicità delle percezioni, espressione personale di una verità superiore, solo evocata, ma fortemente e indiscutibilmente percepita.

Il suo legame con la natura è molto profondo, tanto che a volte sceglie di ritirarsi da solo per interi mesi, in una baita tra le montagne, spinto da un richiamo ancestrale. Al pari di tanti, anch’io trovo benessere per corpo e mente immergendomi nella natura, ma, nel mio caso, l’esperienza va oltre i sensi, la piacevolezza dei profumi e la bellezza dei luoghi. È un cambiamento vibrazionale che avverto in me e che mi consente di connettermi con l’Infinito, che permea ogni cosa.

Questa connessione influisce sulla sua creatività? In realtà non c’è un legame diretto perché la mia ispirazione non scaturisce tanto dall’osservazione della natura, quanto piuttosto da un profondo processo di rigenerazione. Rifugiarmi nella natura è il mio modo di ricaricarmi, accumulando forza vitale, tanto che è molto raro che dipinga mentre mi trovo in questo stato di immersione sensoriale: mi riempio di questa energia e, una volta tornato, sento crescere dentro di me l’impulso di creare. Solo allora ciò che ho accumulato fluisce sulla tela.

Ecco perché il mio approccio creativo è discontinuo: alterno periodi di intensa produzione a momenti di completa chiusura, durante i quali non produco nulla per settimane o mesi. Il mio lavoro ha un’aura esoterica e scaturisce da un’intuizione profonda: non faccio bozzetti né pianifico; l’opera prende forma di getto, quale traduzione diretta delle emozioni e delle energie che mi attraversano e che riverso sulla tela.

Cos’è per lei il Divino? Confesso che questo concetto per me  è ancora un mistero non completamente svelato, anche se ora lo vedo in modo diverso rispetto a quando lo osservavo attraverso le lenti delle credenze comuni e dei dogmi religiosi.  Oggi, immagino Dio come l’origine di ogni cosa, un’immensa rete di luce che abita uno spazio senza tempo: un flusso di infinite particelle, unite da una trama invisibile che collega ogni cosa e persona.

In questa visione, ognuno di noi — sia nel mondo terreno che nell’Oltre — è un atomo immortale, un frammento insostituibile della rete infinita che costituisce il Tutto. La mia serie di opere dal titolo “I Silenti” si colloca proprio  in quella fase primordiale che potremmo definire “pre-Big Bang”: un momento di buio e silenzio, prima che una scintilla attivi la creazione. Da quel lampo nascono la dualità e la separazione, che danno vita a un’onda pulsante che io cerco di tradurre dandole una forma e facendo diventare visibile e tangibile ciò che è immateriale.

Nell’assenza di forma però si rischia anche di perdersi. Le è mai capitato? Mi accade quotidianamente: mi metto sempre in discussione, mi perdo nei vuoti, spesso mi tormento. Essendo poi una persona estremamente sensibile, questa sensazione di perdita e vuoto è stata per me, in passato, particolarmente dolorosa. Col tempo, tuttavia, ho iniziato a lavorare sull’accettazione della dualità, imparando a riconoscere il valore dell’ombra e della difficoltà. Oggi vedo il perdersi come un’opportunità di trasformazione, per ritrovarsi diversi e forse migliori, un percorso di riconciliazione tra luce e ombra, che trasforma la perdita in uno strumento di crescita.

Il fatto di essersi plasmato andando a bottega che cosa le ha dato e cosa le ha tolto? Inizialmente, l’assenza di una rete di protezione, tipica di un percorso più strutturato, mi ha generato qualche insicurezza. Ma il tempo mi ha dato ragione: sono arrivato ai riconoscimenti e alle conferme a cui aspiravo. La bottega, infatti, mi ha donato una libertà di sperimentazione totale, senza vincoli stilistici o manierismi, permettendomi di evitare quelle gabbie mentali in cui rischia di incastrarsi chi è troppo legato alle regole.

Inoltre questo mi ha permesso di sviluppare una tecnica personale e autentica, in un’epoca in cui vedo spesso opere impeccabili sotto il profilo formale, ma prive della spontaneità e del tocco artigianale che rende “visibile la mano dell’uomo”. Peraltro, pur senza aver seguito i classici percorsi accademici, ho studiato moltissimo e ho trascorso anni a esplorare empiricamente le tecniche: dalla ricerca sui colori fino alla gestualità della creazione, che ormai è diventata una mia peculiarità.

Lei è passato dalla fotografia alla musica, poi alla scultura, fino ad approdare alla pittura, che è diventata il fulcro della sua arte. Perché? La pittura è la forma che più mi completa, quella che mi permette di rappresentare l’invisibile in tutte le sfumature emotive. È la sintesi naturale del mio percorso, la fusione di quanto ho sperimentato, studiato e scoperto: racchiude in sé la vibrazione che viene dalla musica, la struttura compositiva della fotografia e la matericità della scultura. È come se ogni fase precedente si fosse unita, creando il linguaggio con cui oggi esprimo al meglio il mio mondo interiore.

Il colore, voce narrante della sua arte, cosa le sussurra? Il colore oggi esprime pienamente chi sono, grazie a una tecnica stratificata che mi consente di creare qualcosa di autenticamente personale. Col tempo mi sono allontanato dalle forme, concentrandomi invece su trame e tinte che risultano uniche, al punto che nemmeno io riesco a riprodurle identiche.

Non seguo procedimenti rigidi: l’unica regola consiste nell’ascoltare la mia sensibilità e tradurla in azione, creando tonalità irripetibili, quasi che  la tela facesse da specchio  alla mia anima. Ogni colore che aggiungo è una risposta diretta al mio stato d’animo e sento il bisogno di usare determinate miscele che, in quel momento, si legano perfettamente al mio sentire. A volte, mi sorprendo io stesso di fronte ai colori che emergono, ma ne comprendo la connessione emotiva e la coerenza con ciò che stavo vivendo.

“Viaggio verso l’essenza” è il titolo della sua ultima personale. È un titolo che esprime perfettamente la mia ricerca interiore, che oggi mi spinga a eliminare ogni sovrastruttura e aspettativa, tutti gli elementi che possono inquinare le mie percezioni e quindi la mia arte, arrivando sempre di più alle sfumature dell’essenza. In questo processo non esiste nulla di assoluto e anche i colori non hanno un significato specifico (per fare un esempio, il rosso non sempre coincide con la passione o la vitalità), ma diventano espressione alchemica del mio essere e sentire del momento.

Quando approccio una tela devo essere “puro”, pur nelle mie fragilità e zone d’ombra; non mi nascondo, abbraccio il dolore e la gioia, la paura e il coraggio, lascio che quello che mi arriva mi penetri e mi attraversi per diventare opera. Allo stesso modo cerco di allontanare i pensieri e la mente perché contaminerebbero qualsiasi tipo di comunicazione superi che la tela e il colore invece in quel momento stanno cominciando a mostrarmi. Lascio che a parlare siano la vita, il cuore e la mente universale.

Non esiste quindi un criterio per la produzione creativa? L’unica regola è l’ascolto di me stesso, perché in me, e in ognuno di noi, c’è il Tutto.

Come si rapporta con il suo ego? Avere un ego sviluppato è stato fondamentale all’inizio per potermi affermare individualmente e artisticamente, ma, man mano che procedeva la mia ricerca spirituale, forte anche di nuove sicurezza e conferme, ho imparato a mettermi umilmente al servizio del Divino, che comunica attraverso la mia arte e che mi dona visioni che superano la  razionalità.

Direi che il suo approccio artistico e nella vita, è molto esoterico. L’esoterismo, per me “è” la vita, o la via, perché rappresenta la ricerca interiore che ti porta a passare da una coscienza comune e terrena a una coscienza superiore. Ognuno di noi è chiamato a evolvere come anima, ma non esiste una sola chiave di lettura della vita: dobbiamo andare oltre la superficie del visibile, eliminare ciò che è dispersivo e fuorviante per avvicinarsi all’essenza, che è l’Uno.

Per lei l’arte è un bisogno, una cura o una forma espressiva? È questo e anche molto di più: è nata per aiutarmi a comunicare, dato che ero una persona molto timida; è una cura perché mi ha dato le conferme e le sicurezze che mi sono sempre mancate; è stata, soprattutto in passato, uno sfogo – in particolare nel periodo adolescenziale, quando la musica heavy metal è diventata il mio strumento di ribellione – e oggi è un balsamo contro le ferite della vita, ma anche un tormento infinito perché mi costringe a rivedermi e analizzarmi attraverso la tela.

La frequenza che percepisce e traduce in colore è qualcosa che domina o da cui è dominato? Si tratta di un processo multidirezionale: io ho il potere di dominarla nel momento in cui la trasformo e la rendo tangibile, ma allo stesso tempo ne sono dominato quando  essa entra dentro di me, arriva alle mie mani e poi si trasmette al colore. È uno scambio ciclico, quasi per osmosi, fra me e l’universo.

L’uso della monocromia rappresenta sicuramente una sfida a livello artistico. Mi ricollego a quanto dicevo prima, cioè alla ricerca della verità incondizionata, di cui alcuni negano l’esistenza ma di cui io, invece, sono profondamente convinto. Per me, la monocromia rappresenta la ricerca della purezza totale, grazie all’eliminazione di tutti i fronzoli del linguaggio e della tecnica, inoltre, eliminando anche la forma, libero la mente dell’osservatore da qualsiasi condizionamento.

Spesso, infatti, lo stesso quadro blu trasmette emozioni completamente diverse a seconda di chi lo osserva o dei momenti in cui viene osservato: ciò significa che la mia è un’opera mutevole, viva, che attraverso il monocromo ha trovato una via per arrivare all’essenza: elimino ogni cosa per offrire un campo emozionale talmente sgombro che viene riempito dall’osservatore, attraverso gli occhi della sua realtà interiore, espressione di quella superiore.

Parliamo della sua reinterpretazione dell’Ultima Cena. L’idea è nata da un amico, il Dott. Paolo Paleari, storico e consulente della Soprintendenza ai Beni Architettonici e per il Paesaggio di Milano, che, tramite una società di restauro (N.d.R. la CeSRL), stava ristrutturando le chiuse della Conca dell’Incoronata, le uniche rimaste dei Navigli di Milano e quasi totalmente originali dell’epoca di Leonardo. Mi sono state commissionate alcune opere sul tema delle acque di Leonardo in occasione di expo 2015 e, successivamente, mi è stata proposta l’idea di realizzare una versione dell’Ultima Cena. All’inizio mi sono sentito molto in soggezione all’idea di confrontarmi con un genio quale è stato Leonardo, che avevo sempre studiato e ammirato, anche per le sue conoscenze esoteriche e simboliche. Ho subito capito che non avrei potuto realizzare un’opera figurativa e ho quindi deciso di puntare sul simbolismo, creando una tela grande un terzo rispetto a quella originale.

L’esecuzione dell’opera è stata la più lunga della mia vita (mi sono occorsi sette mesi), non solo per dipingerla, ma anche per capire quali contenuti inserire, poiché non volevo basarmi sul concetto canonico e religioso dell’Ultima Cena, ma ricollegarmi invece alla visione del Leonardo templare. Ho quindi ambientato la scena all’interno di una piramide, dove sono celate verità: gli apostoli sono ridotti a segni posturali, con una prospettiva di luce turchese in fondo, che rappresenta la speranza. L’insieme poggia sull’ombra di una croce rossa, simbolo di credenze e dogmi portatori di dolore più che di amore. Al centro c’è un germoglio, uno spermatozoo di nuova vita libera dalle menzogne e, intorno, simboli di vario genere sostengono questa nuova realtà, per esempio la spada e il calice (che rappresentano il maschile e il femminile) con i due triangoli, simboli della dicotomia del creato.

Nel suo Manifesto ha affermato: “l’arte è uno specchio, ti mette davanti ai limiti e alle paure e ti costringe alla resa, all’accettazione.” Alla fine, l’abbandono è la vittoria? Sì, perché abbandonarsi non vuol dire lasciarsi trascinare dalla corrente, ma compiere una scelta consapevole, fatta con lucidità e coraggio. Significa avere la forza e la capacità di guardare in faccia la vita, di accettare tutte le dicotomie che essa comporta, abbracciandole con tenerezza e fiducia. 

La sua creatività nasce dall’intima connessione con un amore superiore, le succede anche con quello terreno? Il concetto di amore, per me, è cambiato negli anni: è passato dall’essere un’unione di corpi a una fusione di anime, un’unione sottile che ci espande, ci eleva e ci avvicina all’amore universale. Anche quello terreno possiede una forza potentissima, che mi ha accompagnato durante il mio cammino personale e artistico, riversandosi nelle mie tele: dai primi momenti di passione e sogno al dolore del distacco, ogni passaggio è diventato opera e colore.

L’amore insegna a gestire la pienezza e il vuoto e a imparare a proteggersi, che è fondamentale per le persone particolarmente sensibili. In occasione di rotture particolarmente dolorose, mi è capitato di non riuscire a dipingere, perché sentivo che le mie frequenze erano troppo basse. Anche in questo caso mi sono ascoltato: mi sono fermato, ho aspettato e poi ho riabbracciato la mia creatività, ancora più intensa, perché arricchita da una nuova consapevolezza.

Lei sostiene che l’arte renda vivi, ma qual è il suo concetto di morte? Un inizio o una fine? Da essere umano provo un terrore infinito verso la perdita di ciò che c’è di bello nella vita, ma col tempo ho acquisito nuove certezze (o che almeno ritengo tali per me), che hanno modificato la visione della morte. Credo che esista solo quella fisica, quella del corpo terreno e che la nostra anima continui invece  a vivere su piani dimensionali diversi e con altre modalità. Non provo più paura, ma solo una sorte di nostalgia anticipata per quello che lascerò su questo piano esistenziale, come i ricordi e la mia individualità. Temo invece molto la sofferenza fisica e la malattia, che però fanno parte di un processo di accettazione e che, forse, un giorno riuscirò ad abbracciare poiché parte integrante della dicotomia terrena.

 

C’è qualcosa che vorrebbe ancora dipingere o creare? Il mio percorso è stato lento e mi son dato i tempi giusti per dare concretezza a ciò che volevo realizzare; tuttavia, mi piacerebbe che tante persone nel mondo riuscissero a connettersi con me e, attraverso le mie tele, con una mente suprema, ritrovandomi con loro nell’Uno, già in questa dimensione, tramite l’arte che funge da ponte. Ho molte idee per installazioni importanti, visioni che spero un giorno di riuscire a realizzare. Infine, mi piacerebbe creare opere in collaborazione con AI, tridimensionali in modalità VR (N.d.R. tecnologia di realtà simulata in ambiente tridimensionale), cosi da conoscere e scoprire nuove dimensioni e mondi in modo che possano essere viste e assaporate anche dall’interno, vivendo tutti i suoi piani strutturali, anche se temo che rendere le cose troppo esplicite faccia perdere un po’ di mistero immaginativo.

La sua ultima personale dal titolo “Verso l’essenza” raccoglie tre fasi diverse della sua arte. Ce le spieghi. Esattamente: Leonardo, le Trascendenze e i Silenti rappresentano tre cicli e tre momenti della mia vita completamente diversi, manifestazioni visive di un cammino che parte da Leonardo, caratterizzato da una componente materica e ricca di forme e simbologie, con richiami classici. In questa fase avevo ancora bisogno di un linguaggio riconoscibile esteriormente, che consentisse di affermarmi concretamente e visivamente per ciò che ero e che volevo comunicare.

Le Trascendenze costituiscono un passaggio intermedio in cui i simbolismi cominciano a scomparire, portando a una fase di maggiore evoluzione, in cui l’essere umano “trascende” la parte più materica, selvaggia e istintiva, in un processo di purificazione che lo avvicina al divino. Nei Silenti, il processo giunge alla sua massima espansione: si arriva all’essenza che non necessita più né di forme né di simboli, perché in quell’unico colore c’è l’Infinito.

I Silenti rappresentano l’abbandono a un linguaggio più puro, universale e accessibile a chiunque, poiché proviene da una fonte superiore comune a tutti. Questa personale è la storia di una vita, di un percorso artistico e di un processo alchemico che ci trasforma da esseri umani in scintille di Dio.

 

Per approfondimenti

WWW.LUCABONFANTI.IT

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